Credo dovremmo prendere davvero sul serio il famoso inizio di Anna Karenina sulle famiglie felici, che lo sono tutte allo stesso modo, e quelle infelici, che lo sono ciascuna a modo proprio.
La famiglia felice offre lo standard, la norma, la vetrina pubblica. La felicità viene esibita come un blasone, come la rappresentazione della vita quale pensiamo debba essere. Nulla deve offuscare l’immagine di una famiglia che ha il proprio posto nelle gerarchia sociale e una funzione determinata nel processo produttivo. Quando facevo consulenza in una scuola elementare, sulla famiglia i bambini portavano fondamentalmente due tipi di racconto: uno, abbastanza uniforme, in cui tutto va bene, il papà è bravo e lavora, la mamma è buona e cucina bene, i fratellini sono angioletti con i quali è bello giocare; l’altro racconto era piuttosto una selva di storie in cui i bambini avevano da ridire su tutto, ma tutto comprende davvero una grande varietà di cose, e per quanto queste narrazioni fossero più realistiche della precedente, mostravano anche una fantasia decisamente più rigogliosa. Inutile dire che i bambini che destavano preoccupazione erano quelli del primo racconto, che si sentivano messi nella scomoda posizione di custodi del segreto di famiglia. Erano infatti quelli che si trovavano in difficoltà a trattare con la materia oscura incontrata nelle relazioni tra i genitori. Dovevano in realtà sostenere l’immagine genitoriale contro quel che in loro stessi sentivano nascere come voce d’accusa da tacitare, e la felicità di facciata spesso era il velo su un difficile nodo conflittuale.
Anche nel mondo degli adulti c’è una felicità standard, che va bene per tutti, che ha il volto soddisfatto di chi si trova a proprio agio nella società dei consumi, di chi se ne lascia incantare e cullare. Questa felicità normale può essere altamente personalizzata, come vediamo chiaramente quando facciamo qualche acquisto su Amazon, che con in suoi algoritmi sa indovinare molto bene i nostri gusti. La grande offerta di psicoterapie sul mercato d’altra parte propone questo tipo di felicità. Non sempre infatti la felicità normale gira per il verso giusto, e quando s’inceppa le psicoterapie correnti offrono il miraggio di ripararla senza imporre la necessità di incontrare la divisione soggettiva. In questo senso le psicoterapie sono l’ideologia che corrisponde perfettamente alla società dei consumi. Si presentano esse stesse come oggetto di consumo, come prestazioni offerte per soddisfare un bisogno, e vengono propagandate in modo da andare agevolmente incontro ai gusti del pubblico. Il cognitivismo vi farà vedere il bicchiere mezzo pieno distogliendovi da quello mezzo vuoto, razionalizzerà i pensieri automatici, rettificherà le credenze errate che scatenano in voi reazioni disfunzionali, mentre il comportamentismo influenzerà le vostre condotte riportandole sul binario da cui si erano allontanate. Questo processo ha semplicemente lo scopo di far riprendere il ciclo del consumo, dove la pletora degli oggetti, saturando la mancanza, blocca l’oggetto “a” come causa di desiderio, cioè come causa di disturbo, e addomestica il soggetto perché passi il suo tempo a far le fusa con il piacere in una sorta di soddisfacimento intorpidito. La felicità normale esige infatti l’annullamento di tutto ciò che appare disfunzionale e – come ben illustrano le narrazioni distopiche da George Orwell ad Aldous Huxley – a risultare disfunzionale è sempre il desiderio, la scintilla di un uomo e una donna che s’incontrano e non riescono più a essere i perfetti ingranaggi della macchina in cui non deve succedere niente di imprevisto.
Agli algoritmi di Amazon per intercettare i nostri desideri corrispondono in parallelo quelli delle psicoterapie mimetiche della scienza, che si vogliono deterministiche perché fondate su semplici relazioni di causa-effetto. La felicità normale è, sotto ogni aspetto, una felicità algoritmica. Gli algoritmi naturalmente non hanno mezzi per trattare l’infelicità e la sua traboccante ricchezza di espressioni, quell’infelicità che a noi, nelle persone che vengono a chiedere il nostro aiuto, si presenta in forma di sintomo. Ora, anche se il paziente ci chiede di sbarazzarsene, sappiamo che il trattamento del sintomo non consiste nel cancellarlo, perché il sintomo si raccorda con il punto vitale dell’esistenza in cui si annida il godimento. Lacan, nel seminario sull’Etica, ha mostrato con chiarezza come il godimento non sia semplicemente la festa del positivo, il puro fluire di un piacere liberato, come nelle utopie marcusiane di Eros e civiltà. Il sintomo implica Thanatos accanto a Eros, e porta in sé un rapporto con l’impossibile. L’essere parlante deve misurarsi con questo impossibile per vivere una buona vita.
Soffermiamoci un momento sul problema della buona vita, che è al centro dell’etica filosofica nelle sue diverse varianti. Prima di Kant la Stella Polare che deve guidare la nostra condotta è il Bene, e in relazione a esso si precisano i nostri limiti. Con Jeremy Bentham, che è contemporaneo di Kant, le cose prendono un’altra piega, perché il filosofo e giurista londinese comincia a calcolare. La sua etica si fonda su quella che chiama un’”algebra morale”, con la quale va computando gli effetti delle nostre azioni in modo da massimizzare il piacere e minimizzare il dolore per la comunità. La prospettiva benthamiana cambia completamente il concetto di norma. Orientata dal Bene la condotta di vita è regolata da una limitazione degli eccessi, la norma è nihil nimis. Sotto l’imperativo della massimizzazione salta l’idea di un limite, tutto si proietta skyrocketing. Prendiamo il concetto di Wellness, lanciato alla fine degli anni Cinquanta dal medico statunitense Halbert Dunn. È qualcosa di diverso dalla Good Health. La buona salute per la medicina tradizionale è “il silenzio degli organi”, è una media in cui nessun parametro esce dai limiti della normalità statistica, né si fa sentire come indice di malattia. Per Dunn, sullo sfondo del quale sentiamo l’ispirazione di Bentham, questo non è più sufficiente. Dobbiamo produrre una High Level Wellness, cioè un “metodo di funzionamento proiettato verso la massimizzazione del potenziale di cui un individuo è capace”.
Quest’idea della massimizzazione, che in linguaggio aziendale ha il suo corrispettivo nell’ottimizzazione delle risorse, porta a un funzionamento in cui la norma cambia senso. Se la norma antica determinava dei limiti da non eccedere, quella contemporanea, nata dalla cultura del capitalismo, entra in un’accelerazione in cui limit is the sky. L’imperativo alla massimizzazione, volto della norma contemporanea, porta alla vita a perdifiato che conosciamo oggi, dove il tempo è sempre più rarefatto perché il principio di prestazione divora ogni istante per renderlo produttivo. Chi ha avuto dei manager in analisi conosce la loro perenne tensione verso obiettivi apparentemente irrealizzabili ma che che occorre a tutti i costi realizzare. Chi in analisi ha avuto dei dipendenti, impiegati o operai, conosce l’impossibilità in cui si trovano a dire di no a richieste palesemente insensate ma rispetto alle quali non ci si può sottrarre.
Cosa abbiamo da opporre, come psicoanalisti, alla felicità normale algoritmica, illimitata, capitalistica, senza punti di contrasto, circolante su un principio di piacere che addormenta il desiderio e sveglia alla produzione? Penso che la sola risposta sia: la felicità attraverso il sintomo, o meglio, le forme di felicità che si possono toccare attraverso le infinite varietà dei sintomi. La definizione che Lacan ha dato della salute mentale include il confronto con l’impossibile, implica prendere le misure dell’assenza di rapporto sessuale. Non esiste un godimento senza punti di contrasto. Il sintomo è un segno di godimento con una punta d’infelicità, d’incompletezza. Questa è la spezia che singolarizza una felicità a portata dell’essere parlante. Freud considerava che un’analisi dovesse eliminare il sintomo, e trovava un punto d’impasse nella roccia basilare della castrazione. Lacan ha forzato una via d’uscita da questo vicolo cieco. Non è tanto la castrazione, o il riconoscimento di una mancanza il punto d’arrivo di un’analisi, ma l’assenza di rapporto sessuale. Le molte testimonianze di passe che abbiamo ascoltato in questi anni mostrano in ciascuna un’invenzione singolare realizzata non malgrado, ma grazie al sintomo. Le testimonianze di passe non hanno infatti niente di tipico, sono un repertorio aperto che non potremmo mai raggruppare in categorie.
Molti anni fa, nella comunità milanese, in preparazione del Congresso AMP del 1994 su “La conclusione della cura” avevamo studiato insieme a Jacques-Alain Miller “Le congiunture d’innesco dell’uscita d’analisi nei casi di Freud”. Possiamo valorizzare pienamente il termine “congiuntura”, che significa circostanza, opportunità, occasione. Sappiamo che nel mito greco l’Occasione ha un solo capello, passa di corsa e bisogna cogliere l’istante unico per afferrarla. Nelle testimonianze di passe vediamo infatti l’instante in cui le cose si illuminano, in cui i segni convergono, il momento fuggevole in cui si può dire: “Ora!”
Fare qualcosa con il sintomo, prendere il dardo di dolore con cui ci penetra e rovesciarlo proiettandolo in avanti è la via singolare con cui ogni analisi detotalizza la felicità normale, apre la possibilità dell’incontro perché il sintomo possa essere un partner-sintomo, senza evitare la scaglia amara presente nella dolcezza dell’amore di cui, dal fondo dei secoli, una poetessa come Saffo ci ha saputo parlare nel modo più toccante.
Intervento tenuto il 2 luglio 2017 a Bruxelles, in occasione del Congresso AMP di PIPOL 8. L'articolo è tratto dal blog a cura del Dott. Focchi.